Prove generali

《Poche cose al mondo eguagliano la magia del teatro. L’attesa dietro le quinte, le luci che ti invadono quando entri in scena. Prima, l’emozione della prova generale, che è il momento in cui metti a fuoco le tue paure: potrei dimenticare questo, inciamparmi qui, uscire di qua piuttosto che di là. Di solito ne esci con una gran confusione, ma quando è il momento di andare in scena, tutto inizia a scorrere come doveva. È il tempo del teatro, che non tradisce mai.》

(A. Cora, cantante e performer)

E così, due cari amici decidono di imbarcarsi in un’avventura. Non è che non siano pratici di palchi ed esibizioni, eh?, ma vogliono creare qualcosa di mai provato prima: un cross-over musicale, un “piccolo varietà tra Mozart e Macario”, come lo hanno definito.

Una cantante lirica e un cantante jazz: ma in realtà due musicisti a tutto tondo (nonché insegnanti), che mettono su quasi due ore di spettacolo, spaziando dalla rivista di Petrolini ai classici della musica leggera di Frank Sinatra, con incursioni d’opera – Monteverdi, Handel – in un continuo rimando di citazioni colte e popolari. Facendo tutto da sé… ingaggiando un pianista e un contrabbassista, organizzando l’evento, studiando una scenografia minimal ma efficace, ma soprattutto inventando una coreografia che finisce per coinvolgere il pubblico in battimani che si confondono con gli applausi finali.

Non è solo teatro. È sperimentazione musicale – l’opera cantata facendo esercizi di pilates è un’invenzione geniale, che ha già dato vita ad un corso dedicato. È amore per il palco, è saper dare al pubblico, è avere la capacità di emozionare senza troppi fronzoli: la musica, ridotta al minimo, e due grandi voci.

Ero dietro le quinte, la sera dello spettacolo. Lì dal giorno prima, per le prove generali (di cui qui alcuni scatti): è stata una grande emozione, e volevo raccontarla.

Nota:

“Gastone e la Divina” è andato in scena il 19 gennaio nel Cine Teatro di Vinovo (To), e sono attese repliche. Il ricavato della serata è stato devoluto in beneficienza.

Yayla, ovvero una Turchia d’altri tempi

Quando la giovane sposa dell’archeologo Richard Gough, Mary, nei primi anni ’50  del secolo scorso, decise di accompagnare il marito nei suoi viaggi scientifici nel sud della Turchia, forse non era del tutto consapevole di quello che avrebbe trovato: ma, di certo, con leggerezza e un tocco di ingenua sorpresa, non mancò di registrare le sue esperienze, poi pubblicate, nel 1954, in un libriccino in cui raccontò con molti particolari quella regione impervia, i suoi abitanti, i suoi panorami sorprendenti, i cibi e i suoni e i colori di un angolo di mondo in cui il tempo sembrava essersi fermato.

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Mi sono trovata a viaggiare molto, quasi mezzo secolo più tardi, in quella stessa regione, e per ragioni molto simili: trovare le vestigia di un tempo passato da tanto, e parlarne nel mondo accademico. In antico si chiamava Cilicia, Kilikia, oggi questa vasta area montuosa a ridosso di una costa impervia e frastagliata è divisa fra diverse aree amministrative della moderna Turchia, e in alcune zone davvero poco sembra essere cambiato rispetto ai racconti della Gough.

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I monti del Tauro, Toros Dağları, con i loro scoscesi altipiani, le rare e ripide vallate, poche vie d’accesso, hanno contribuito a cristallizzare i caratteri e gli insediamenti, le abitudini e i volti, i panorami, i cibi e i colori, così come sono stati per secoli.

E mentre nella stretta fascia costiera, più dinamica e aperta, la speculazione edilizia sta progressivamente erodendo il paesaggio storico, nell’entroterra poco è cambiato. L’entroterra, che viene definito yayla in turco – l’altopiano – è ancora così impervio e tradizionalista, in qualche angolo vi abitano yörük  (“il popolo che cammina”, nomadi di origine turchica), e le famiglie ormai stanziali della costa vi traslocano la famiglia, soprattutto anziani e bambini, insieme con masserizie e animali, perché trascorrano indenni, al fresco delle zone d’altura, l’estate altrimenti torrida. Una volta questa usanza era una vera e propria transumanza, e nei pascoli estivi si produceva il formaggio per l’inverno successivo: oggi ci si sposta con maggiore facilità, al mulo si è sostituita la moto e, per i più fortunati o benestanti, l’automobile, ma soprattutto le case della costa cominciano ad avere tutte l’aria condizionata, e questi spostamenti stagionali vengono via via a perdere, progressivamente, l’antico significato.

Ho visitato gli Yayla del Tauro soprattutto d’autunno, e per lo più in ottobre, periodo in cui la smobilitazione era spesso già conclusa. Ho incontrato perciò pochi di quanti si spostano stagionalmente, e per lo più chi vive permanentemente negli Yaya, tutto l’anno.

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Di tanto in tanto, si incontrano le casette che vengono abbandonate d’inverno. A volte sono poco più che ricoveri quasi di fortuna, a volte vere e proprie costruzioni, sperse in un paesaggio quasi lunare.

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Le poche radure, riarse dal sole d’estate, sono spesso deserte.

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Mi sono fermata spesso nelle valli, dove piccoli villaggi sembrano vivere sospesi nel tempo uguali a se stessi da decenni, da secoli. L’arrivo di un’automobile dalla città, ma soprattutto l’arrivo di stranieri, genera diffidenza, qualche volta curiosità. Sono l’unica donna della piccola comitiva, e anche l’unica che sa parlare un po’ di turco. Chiedo informazioni, so che tra questi declivi scoscesi si nascondono resti antichi, a volte fingono di non capire. A volte, in risposta alle mie domande, si rivolgono agli uomini che sono con me (ma non capiscono…!), solo una vecchina, una volta, decide che parlare con me è la cosa migliore: ma le mancano i denti, biascica qualcosa che il mio scarso turco di allora non mi consente di capire… le chiedo di parlare “più piano”, intendendo lentamente, e lei ripete le stesse parole smozzicate, solo con un tono di voce più basso. Probabilmente quel giorno non troverò le mie rovine, lo so già, ma questa donnina ha tutta la mia simpatia…

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Nell’ottobre del 2005, lavoravo al mio dottorato, ero alla ricerca di tombe scavate nella roccia di cui la regione è costellata. In un punto perso nel nulla, tra i siti di Başyayla e Sarıveliler, squilla il telefono di chi era alla guida. Accostiamo, e rimaniamo qualche minuto fermi sul ciglio della strada. Nei pressi c’è una casetta, degli uomini e qualche donna lavorano all’orto, e due bambine giocano all’aperto. Sono belline, con i musetti un po’ sporchi, i capelli scarmigliati, gridano a rincorrersi. Le guardo divertita, finché non si accorgono della macchina e si avvicinano. Sono timide, ma anche un po’ spavalde – quanti anni avranno, alla fine, cinque, sette?, sono bimbe, e sono curiose.

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Chiedo i loro nomi, e che peccato averli dimenticati subito dopo, e dico loro il mio: ridono, felici ed eccitate dall’incontro a sorpresa. Mi raccontano qualcosa dei loro giochi, e allora provo a sapere se vanno a scuola, ma loro ridono… e vedono la mia macchina fotografica, vogliono una foto, si mettono in posa. La mamma le ha viste, e si avvicina. Con un po’ di deferenza, mi rivolgo allora a lei, presentandomi: sono un’archeologa, vengo da Roma, le bimbe vogliono farsi fare una foto, posso? “Da Roma? Roma in Italia?”, mi fa la mamma. Al mio accenno di assenso, continua “e allora perchè non te le porti con te, le mie figlie?, perché non le porti con te, a Roma in Italia, così possono essere felici: io qui non ho niente, noi non abbiamo niente… portatele con voi, vi prego”. Avrò dimenticato i loro nomi, ma non dimenticherò mai le parole della loro mamma: è un po’ come se le avessi registrate, incise nel cuore per sempre. Insieme con lo strazio rassegnato, negli occhi della mamma, quando riusciamo a ripartire, col cuore gonfio, e gli occhi pure.

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Sempre in quei giorni, tra appunti frenetici d’archeologia e foto più o meno insulse di tombe e resti antichi, abbiamo incontrato molte altre persone. Talvolta, la macchina fotografica infastidiva visibilmente i locali, e quindi non rimangono immagini di quegli incontri, se non nella mia memoria: come quella volta con Ahmet, pastore incrociato col suo gregge lungo la strada, che tenne il kalashikov in spalla fino all’ingresso di casa sua, salvo poi invitarci dentro per una cena frugale fatta di sıkma al formaggio (dei rotolini di pasta, simile ad una sorta di piadina), preparati al momento in cucina dalle donne in mia compagnia, e çay bollente, il classico tè alla turca servito nei bicchierini di vetro.

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Lokman invece non aveva alcun problema nei confronti della macchina fotografica. Ci invitò, dopo averci “intercettati” in un sito vicino al quale è la sua casa. Il fratello era lì, con la moglie, una donna che ci disse di essere da poco rimasta senza denti e per questo fumava, fumava ancor più del solito, per non sentire il dolore in bocca. Non volle essere aiutata in cucina, stavolta: anche perché la casa era di fatto un blocco quadrangolare, in blocchetti grezzi di cemento, la stufa in un angolo, una sorta di giaciglio fatto di coperte ammucchiate e cuscini da un lato, e tappeti e un po’ dappertutto, in terra. E a terra ci siamo accoccolati tutti, dopo esserci tolti le scarpre per entrare, a sorseggiare il çay, servito caldo, forte, ben zuccherato.

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Anche qui, sıkma farciti del formaggio appena fatto. Ma grandi sorrisi, e domande sull’Italia – “Avete le capre, in Italia? Fate il formaggio, a Roma? Avete la parabola a casa? Noi vorremo avere la parabola per la tv, e vedere il calcio…” –  ah, già: il calcio. Quasi dimenticavo. Come ho potuto! Alla fine era quello, sempre, l’argomento principe: il calcio era in grado di soppiantare perfino il gettonatissimo Berlusconi, famosissimo in Turchia anche per i suoi rapporti con i politici locali.

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Leggevo qualche giorno fa che nella regione del Mar Nero, sempre in Turchia, alcuni insiediamenti negli yayla sono stati progressivamente trasformati in stazioni turistiche, una sorta di b&b locale. Non so cosa pensare, a questa notizia, forse è un’evoluzione naturale delle antiche tradizioni, che così non andranno del tutto perdute. Sono però contenta di averne “assaggiata” un po’, di questa tradizione, quasi come Mary Gough negli anni ’50 del Novecento, e di poterne serbare un ricordo autentico.

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Portogallo, mon amour!!

Mi sveglio presto. È il mio ultimo giorno qui, voglio respirare l’odore del mare fino a farmi scoppiare i polmoni.

La valigia è pronta, un unico dubbio. Fare finalmente la turista, e andarmene un po’ in giro… o camminare di nuovo fino alla spiaggia, lasciarmi lambire i piedi dall’acqua gelata, prima di tornare? Qualche nuvola, spessa, grigia, e incredibilmente bassa, sembra suggerire già la soluzione plausibile. Ma non resisto, mi metto comunque il costume da bagno – e poi, maglia a maniche lunghe, e felpa, è fresco in fin dei conti…

Metto in moto, mi fermo. Il cielo è bellissimo. Tra le nuvole, sprazzi di blu. Pliiiin, un messaggio. Pliiiin, un secondo messaggio. “Ehi, sono andato a Cova do Vapor, ma non c’erano onde buone… vuoi fare lezione più tardi?”

Uh, già, avevo dimenticato. Ultimo giorno di vacanza, ultimo giorno di surf. Mi va di surfare? Forse. Ma… Cova do Vapor? Non conosco questa spiaggia. Santa GoogleMaps, controllo veloce. Sono in auto, è a pochi minuti. Sono curiosa, adesso, e decido di andare. Dopo risponderò. Dopo, forse, penserò se fare la turista, sulla via per l’aeroporto. Dopo. Ora voglio respirare il mare, ancora una volta.

Cova do Vapor. È proprio dove il Tago si incontra con l’Atlantico, acque verdi e blu lo circondano da ogni lato. La rada per le barche da pesca, è ancora mattino presto e sono appena rientrate, e lo scivolo per calarle in acqua.

Lisbona, da lontano, pigra sulla sponda sinistra del fiume, sembra ancora assopita dopo le sbronze del venerdì sera. Qui il fiume, lì l’oceano. Villaggio sghembo, poche case, forse un paio di centinaio di abitanti.

Poche persone per le stradine, il bar sta aprendo. Qualcuno torna a casa, un bambino ride da dietro le finestre. Un gatto veloce, carcassa di pesce in bocca, schizza via talmente rapido che mi chiedo se l’ho visto davvero o solo immaginato.

E finalmente arrivo in spiaggia. Il sole non ce la fa a bucare le nuvole. Il vento è leggero, ma costante. Tiro su il cappuccio, e respiro.

La spiaggia è vuota. No, meglio: non c’è essere umano, ma la spiaggia è decisamente popolata. Me ne accorgo ancor prima di vederli: gabbiani.

Sono lì, a riposo. Uno stormo intero, centinaia di gabbiani. In silenzio, si spostano appena sulla distesa di sabbia. Aspettano che faccia giorno sul serio…

Finalmente vedo qualcuno, laggiù tra le onde. Sono onde talmente rotte e incostanti che solo body surfer sono in acqua. Deve essere divertente, non l’ho mai provato, il body surf.

E mano a mano che mi abituo al chiarore che filtra tra le nuvole e si riflette sulla sabbia chiara, vedo anche loro, i pescatori con le loro canne, sui moletti costruiti per fermare l’erosione, la forza violenta dell’oceano. Sembrano eroi, lassù, attenti e silenziosi, in piedi a distanza quasi regolare l’uno dall’altro, quando qualche raggio di sole finalmente ce la fa, a passare le nuvole.

La risacca. L’onda contro il molo. Qualche gabbiano che si alza in volo. Di tanto in tanto, i surfer lanciano un grido, è divertente.

Rompo gli indugi. Il sole è ormai salito, mi tolgo le scarpe. E anche la felpa. Corro per andare a riva, a bagnarmi i piedi, corro, e corro attraverso i gabbiani… loro si alzano, volano un po’, riempono il cielo per un attimo, e il bianco contrasta col blu, e io sento l’acqua fredda intorno alle caviglie, il viso al sole, che pace!, che meraviglia!

Libertà.

L’anno che verrà 

Viaggiare in treno è sempre una scoperta.

Perfetti estranei diventano così ad un tratto sodali, compagni, confidenti.
31 dicembre 2015

Oggi ho conosciuto Jasmine, 4 anni. Viaggia con me da Roma, scende a Milano. I genitori sono forse magrebini, o comunque di un posto più a nord, poco più a nord del Sahara. Lei, probabilmente, è nata qui. Si addormenta presto, subito dopo Firenze, dopo aver rifiutato educatamente i miei biscotti ed aver chiesto al padre, che la invitava a ringraziare, “perché dobbiamo sempre dire grazie, papà?” con gli occhi curiosi e la voce bassissima. Il papà le ha risposto in arabo, la mamma rimane in silenzio. È bellissima, nonostante abbia i capelli arruffati e gli occhi stanchi. Ha la nausea, l’ho capito, e quando finalmente i nostri occhi si incrociano mi sussurra “non ce la faccio più…”.

Ho capito anche, da come si tocca il ventre, che sono nausee da gravidanza. Aspetta un bimbo, mi dirà più tardi, quando il treno alla stazione cambia il senso di marcia, e viene a sedersi accanto a me. Non riesce a mangiare da settimane, soprattutto quando ha cucinato lei. “Questi giorni a Roma, invece, è stato bello…abbiamo camminato tanto, c’era il sole, sono riuscita a mangiare e a rilassarmi…” Poi si addormenta, anche lei, mentre il marito ascolta la musica con le cuffie.

Quando arriviamo a Milano sono loro, per primi, a farmi gli auguri. E Jasmine mi saluta con la mano, gli occhi ancora addormentati, abbarbicata sulla spalla del papà.
Adesso il treno è praticamente vuoto. Tre ragazze, già vestite per la festa, chiacchierano da ore davanti al distributore del caffè. Uno scricciolo di tre mesi, in braccio alla mamma – una donna grande, forte, di quelle possenti, di quelle che una volta avrebbero fatto la balia – che passando mi dice “Quando fa così è perché qualcosa l’ha spaventato… scusaci”. Ma quali scuse, non mi ero neanche accorta che ci fosse questo cucciolo, da quanto è stato buono. “Eh, me so’ rotto io, figurete lui!”, mi dice da due file più in là il padre, la faccia tesa e stanca.
“Immagino voglia un tè, vero?” mi chiede la ragazza che serve a bordo con un sorriso. Ho preso un tè caldo ogni volta che è passata, e ho scherzato sul fatto di non averne preparato un thermos pieno per il viaggio. È una bella idea, in fondo, e anche piuttosto semplice.
Ecco, il mio proposito per l’anno nuovo. Comprerò un thermos, e ogni volta che viaggerò potrò portarmi il mio tè caldo.

Piccola storia della sera

Un signore col bastone entra nel treno. Un ragazzo, giovane giovane, si alza e gli cede il suo posto accanto ad una signora, anche lei di una certa età.
Lei: “e quando fanno così, sono davvero carini!”
Lui: “eh, diventeranno anche loro grandi come noi!”
Ridono, si dicono “io sono del ’30”, “io del 31!!!” e ridono ancora.
E iniziano lei a civettare, lui a corteggiare, a colpi di nipoti e sbinipoti (“10 nipoti e sei pronipoti. ..so’ sbinonna io!!”), di dove sono cresciuti, dove vivono, e ridono, e si salutano “Non facciamo mica niente di male”, “Siamo vedovi tutti e due!!”
Vivaddio. L’amore, e la voglia di vivere, e tutto il resto.

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Foto: Veronica Iacomi https://flic.kr/p/n3h7rP

Roma, Roma, Roma

Ieri, quasi per caso, mi è capitato di innamorarmi. Di nuovo, per l’ennesima volta.

Destinazione, Ospedale del S. Spirito, Roma. Un ospedale antico, in un luogo scenografico, a dir poco, della città.
Sono in ritardo (al solito), lo sportello per ritirare i referti chiude all’ora di pranzo, è metà mattina e il traffico e il freddo non aiutano. Bene, decido di affidarmi alla tecnologia, e seguo il percorso suggerito dall’azienda dei trasporti come il più veloce: cambio a Trastevere, e poi altro bus. Di quelli piccini, linea circolare, passa in fretta e spesso. Uh sì, la conosco questa linea, qualche volta l’ho presa – più per sbaglio che per scelta… E, sì, passa sul Gianicolo, il colle più alto di Roma. E, sì, è una giornata a dir poco stupenda, l’aria tersa e il cielo sgombro, azzurro, e un sole che non scalda ma illumina. E da lì, Roma sorniona mi saluta, mi seduce, mi affascina una volta ancora, ancora un’ennesima volta. Vorrei scendere, e rimanere lì a contemplare, lontano dal frastuono del traffico. Roma.

Roma, Roma, Roma.

La Città Eterna, la chiamano.
E lei sembra pienamente consapevole di meritare questo titolo.
Elegante quando vuole, riccamente abbigliata, carismatica. Viva.
Ma anche abbandonata, disprezzata: usata, perfino, quando ai tocchi magici dell’arte si sovrappone, inesorabile, il giogo della politica. Il cuore di Roma è uno scrigno, ma talvolta sembra quasi che quest’arca sia conservata malamente in una stanza abbandonata, piena di cianfrusaglie inutili, all’occorrenza depredata e lasciata spoglia, vuota.

Roma è perciò una e mille contraddizioni, uno e mille volti, “non basta una vita per conoscere Roma”, dicono… E di Roma, su Roma, ne hanno dette tante. Una delle mie preferite pare l’abbia scritta addirittura il Manzoni, che ebbe a dire “il cielo di Roma…è bello sempre, e non solo quando è bello come quello di Lombardia”…

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Il Tevere e Castel S. Angelo a Roma. Foto Veronica Iacomi, 2015

Un giorno d’inverno, col cielo terso e il vento che taglia la faccia, a caccia di un raggio di sole in un angolo riparato, cercando rifugio in un cortile nobiliare, o in una chiesa nascosta, è facile innamorarsi di Roma. Anche quando piove

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Via dei Fori Imperiali e il Colosseo, in un giorno di pioggia. Foto Veronica Iacomi, 2015

Un artista romano – giovane, ha suppergiù la mia età… – ha detto di Roma, la sua città, la mia città “Roma è una bella donna addormentata, immobile, una città che non riesce a svegliarsi dal torpore”^, e l’ha a modo suo ritratta così:

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Diamond, “Hic sunt Adamantes” – Roma, Tor Marancia 2015. Foto Veronica Iacomi

Mi piace pensare a Roma come ad un gatto, accoccolato sulla sua coda. Da contemplare, e condividerne la paciosa, compiaciuta, consapevole pace, beata e indifferente.

^ Da http://www.internazionale.it/reportage/2015/04/10/roma-tor-marancia-murales-street-art

Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul

Istanbul ferita a morte.
Nel cuore di Costantinopoli.

…lì, dove una volta sorgeva Bisanzio.

Istanbul, una scoperta per me – ho odiato, la prima volta, quella città così occidentale, così poco turca, dopo mesi passati tra i villaggi e i volti della Turchia più profonda.

Ma poi è nato pian piano l’amore, i gioielli architettonici, le meraviglie storiche e artistiche, le gioie culinarie: e i sorrisi della gente, i çay offerti in strada, i mercati ordinati, l’odore del mare, la gioventù di Taksim…

E mi ha stupito ancora una volta, un anno e mezzo fa, tornavo dopo tanti mesi. Una città divisa, di qua le code di turisti, di là i suoi abitanti. E, negli angoli, i profughi.

Istanbul, İstanbul, oggi un pensiero per te.

(Foto: Veronica Iacomi)

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Istanbul, Sultanahmet Camii (Moschea Blu). Preghiera per il ramazan, ottobre 2006

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Il Bosforo. Ottobre 2006

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Sultanahmet Camii (Moschea Blu), ottobre 2006

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Istanbul, banchi del pesce a Samatya. Febbraio 2007

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Rüstem Paşa Camii. Febbraio 2007

Una sera, a Istanbul

Istanbul, adiacenze di piazza Taksim.
Studiosi europei, reduci da un ricevimento organizzato per il congresso a cui partecipano, camminano veloci mentre discutono su dove andare a cena.
Cercano un ristorante bello, pulito, non importa se un kebab costi 10 volte tanto il suo effettivo valore: deve essere un posto *cool* alla maniera europea, e chissene importa se finiremo a mangiare hamburger e patatine.
Le strade sono sporche, la gente si muove veloce, simitci vendono le loro ultime ciambelle salate. Profughi siriani e curdi ad ogni angolo, sotto i portoni, sui marciapiedi.
Gli studiosi europei parlano in inglese tra loro, ridono senza guardare l’umanità che li circonda. Potrebbero essere ovunque, la scena sarebbe identica, Roma Parigi Berlino, direbbero le stesse maliziose verità sui colleghi non presenti, sui loro stipendi, sulle difficoltà del loro lavoro.
Ma una persona presta poca attenzione al chiacchiericcio in una lingua non sua. Quella persona conosce Istanbul, ma non la riconosce più. Quella persona riesce a cogliere più facilmente le mezze frasi dei profughi negli angoli e sui marciapiedi, che le strategie inutili degli europei affamati.
Quella persona li sente, i poveri dell’Est, i disperati di una metropoli che sembra scoppiare, ed è sorpresa. Ridono. Scherzano. Sono felici di un sorriso, e della risata di un bambino.
Ci sono delle donne, appunto, con una nidiata di piccoli di ogni età: stanno tagliando un cocomero, passano le fette ai loro figli nipoti o chissà che. Li rimbrottano bonarie, li invitano a mangiare, e i bimbi aspettano il loro turno con l’eccitazione come per un regalo inatteso.
Quella persona li vede, incrocia i loro sguardi, non può fare a meno di sorridere e dire “Afyet olsun, buon appetito”. Le donne sorridono a loro volta, ringraziano. E poi, piccolo miracolo dell’umanità che non possiede nulla se non il proprio cuore, invitano quella persona a mangiare con loro: “Buyurun, prego, ne vuoi anche tu?”, allungando una fetta.
Quella persona, in quel momento, sa che non andrà a cena nel ristorante *cool* con gli altri europei, quella persona dice alle donne, “date la mia fetta ai bambini, grazie”, “che dio ti benedica” rispondono loro, e, sempre sorridendo, continuano a distribuire fette rosse punteggiate di semi.

Quella persona si sente un po’ felice, un po’ triste, non si riconosce nei suoi compagni di camminata. Si scusa, si congeda: probabilmente farà andare a casa il simitci comprandogli le ultime ciambelle, o forse non mangerà per niente.

Vibra in modo quasi assordante quella semplice verità, che il vero possesso, la sola ricchezza è quella di chi ha un cuore generoso. Che quando si ha poco o nulla, il valore di ciò che si ha è talmente grande da non poterlo tenere solo per sé: si condivide, al costo di un sorriso.

(Roma, luglio 2015)

Foto: Gezi Park, Istanbul. Settembre 2014

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