Quando la giovane sposa dell’archeologo Richard Gough, Mary, nei primi anni ’50 del secolo scorso, decise di accompagnare il marito nei suoi viaggi scientifici nel sud della Turchia, forse non era del tutto consapevole di quello che avrebbe trovato: ma, di certo, con leggerezza e un tocco di ingenua sorpresa, non mancò di registrare le sue esperienze, poi pubblicate, nel 1954, in un libriccino in cui raccontò con molti particolari quella regione impervia, i suoi abitanti, i suoi panorami sorprendenti, i cibi e i suoni e i colori di un angolo di mondo in cui il tempo sembrava essersi fermato.
Mi sono trovata a viaggiare molto, quasi mezzo secolo più tardi, in quella stessa regione, e per ragioni molto simili: trovare le vestigia di un tempo passato da tanto, e parlarne nel mondo accademico. In antico si chiamava Cilicia, Kilikia, oggi questa vasta area montuosa a ridosso di una costa impervia e frastagliata è divisa fra diverse aree amministrative della moderna Turchia, e in alcune zone davvero poco sembra essere cambiato rispetto ai racconti della Gough.
I monti del Tauro, Toros Dağları, con i loro scoscesi altipiani, le rare e ripide vallate, poche vie d’accesso, hanno contribuito a cristallizzare i caratteri e gli insediamenti, le abitudini e i volti, i panorami, i cibi e i colori, così come sono stati per secoli.
E mentre nella stretta fascia costiera, più dinamica e aperta, la speculazione edilizia sta progressivamente erodendo il paesaggio storico, nell’entroterra poco è cambiato. L’entroterra, che viene definito yayla in turco – l’altopiano – è ancora così impervio e tradizionalista, in qualche angolo vi abitano yörük (“il popolo che cammina”, nomadi di origine turchica), e le famiglie ormai stanziali della costa vi traslocano la famiglia, soprattutto anziani e bambini, insieme con masserizie e animali, perché trascorrano indenni, al fresco delle zone d’altura, l’estate altrimenti torrida. Una volta questa usanza era una vera e propria transumanza, e nei pascoli estivi si produceva il formaggio per l’inverno successivo: oggi ci si sposta con maggiore facilità, al mulo si è sostituita la moto e, per i più fortunati o benestanti, l’automobile, ma soprattutto le case della costa cominciano ad avere tutte l’aria condizionata, e questi spostamenti stagionali vengono via via a perdere, progressivamente, l’antico significato.
Ho visitato gli Yayla del Tauro soprattutto d’autunno, e per lo più in ottobre, periodo in cui la smobilitazione era spesso già conclusa. Ho incontrato perciò pochi di quanti si spostano stagionalmente, e per lo più chi vive permanentemente negli Yaya, tutto l’anno.
Di tanto in tanto, si incontrano le casette che vengono abbandonate d’inverno. A volte sono poco più che ricoveri quasi di fortuna, a volte vere e proprie costruzioni, sperse in un paesaggio quasi lunare.
Le poche radure, riarse dal sole d’estate, sono spesso deserte.
Mi sono fermata spesso nelle valli, dove piccoli villaggi sembrano vivere sospesi nel tempo uguali a se stessi da decenni, da secoli. L’arrivo di un’automobile dalla città, ma soprattutto l’arrivo di stranieri, genera diffidenza, qualche volta curiosità. Sono l’unica donna della piccola comitiva, e anche l’unica che sa parlare un po’ di turco. Chiedo informazioni, so che tra questi declivi scoscesi si nascondono resti antichi, a volte fingono di non capire. A volte, in risposta alle mie domande, si rivolgono agli uomini che sono con me (ma non capiscono…!), solo una vecchina, una volta, decide che parlare con me è la cosa migliore: ma le mancano i denti, biascica qualcosa che il mio scarso turco di allora non mi consente di capire… le chiedo di parlare “più piano”, intendendo lentamente, e lei ripete le stesse parole smozzicate, solo con un tono di voce più basso. Probabilmente quel giorno non troverò le mie rovine, lo so già, ma questa donnina ha tutta la mia simpatia…
Nell’ottobre del 2005, lavoravo al mio dottorato, ero alla ricerca di tombe scavate nella roccia di cui la regione è costellata. In un punto perso nel nulla, tra i siti di Başyayla e Sarıveliler, squilla il telefono di chi era alla guida. Accostiamo, e rimaniamo qualche minuto fermi sul ciglio della strada. Nei pressi c’è una casetta, degli uomini e qualche donna lavorano all’orto, e due bambine giocano all’aperto. Sono belline, con i musetti un po’ sporchi, i capelli scarmigliati, gridano a rincorrersi. Le guardo divertita, finché non si accorgono della macchina e si avvicinano. Sono timide, ma anche un po’ spavalde – quanti anni avranno, alla fine, cinque, sette?, sono bimbe, e sono curiose.
Chiedo i loro nomi, e che peccato averli dimenticati subito dopo, e dico loro il mio: ridono, felici ed eccitate dall’incontro a sorpresa. Mi raccontano qualcosa dei loro giochi, e allora provo a sapere se vanno a scuola, ma loro ridono… e vedono la mia macchina fotografica, vogliono una foto, si mettono in posa. La mamma le ha viste, e si avvicina. Con un po’ di deferenza, mi rivolgo allora a lei, presentandomi: sono un’archeologa, vengo da Roma, le bimbe vogliono farsi fare una foto, posso? “Da Roma? Roma in Italia?”, mi fa la mamma. Al mio accenno di assenso, continua “e allora perchè non te le porti con te, le mie figlie?, perché non le porti con te, a Roma in Italia, così possono essere felici: io qui non ho niente, noi non abbiamo niente… portatele con voi, vi prego”. Avrò dimenticato i loro nomi, ma non dimenticherò mai le parole della loro mamma: è un po’ come se le avessi registrate, incise nel cuore per sempre. Insieme con lo strazio rassegnato, negli occhi della mamma, quando riusciamo a ripartire, col cuore gonfio, e gli occhi pure.
Sempre in quei giorni, tra appunti frenetici d’archeologia e foto più o meno insulse di tombe e resti antichi, abbiamo incontrato molte altre persone. Talvolta, la macchina fotografica infastidiva visibilmente i locali, e quindi non rimangono immagini di quegli incontri, se non nella mia memoria: come quella volta con Ahmet, pastore incrociato col suo gregge lungo la strada, che tenne il kalashikov in spalla fino all’ingresso di casa sua, salvo poi invitarci dentro per una cena frugale fatta di sıkma al formaggio (dei rotolini di pasta, simile ad una sorta di piadina), preparati al momento in cucina dalle donne in mia compagnia, e çay bollente, il classico tè alla turca servito nei bicchierini di vetro.
Lokman invece non aveva alcun problema nei confronti della macchina fotografica. Ci invitò, dopo averci “intercettati” in un sito vicino al quale è la sua casa. Il fratello era lì, con la moglie, una donna che ci disse di essere da poco rimasta senza denti e per questo fumava, fumava ancor più del solito, per non sentire il dolore in bocca. Non volle essere aiutata in cucina, stavolta: anche perché la casa era di fatto un blocco quadrangolare, in blocchetti grezzi di cemento, la stufa in un angolo, una sorta di giaciglio fatto di coperte ammucchiate e cuscini da un lato, e tappeti e un po’ dappertutto, in terra. E a terra ci siamo accoccolati tutti, dopo esserci tolti le scarpre per entrare, a sorseggiare il çay, servito caldo, forte, ben zuccherato.
Anche qui, sıkma farciti del formaggio appena fatto. Ma grandi sorrisi, e domande sull’Italia – “Avete le capre, in Italia? Fate il formaggio, a Roma? Avete la parabola a casa? Noi vorremo avere la parabola per la tv, e vedere il calcio…” – ah, già: il calcio. Quasi dimenticavo. Come ho potuto! Alla fine era quello, sempre, l’argomento principe: il calcio era in grado di soppiantare perfino il gettonatissimo Berlusconi, famosissimo in Turchia anche per i suoi rapporti con i politici locali.
Leggevo qualche giorno fa che nella regione del Mar Nero, sempre in Turchia, alcuni insiediamenti negli yayla sono stati progressivamente trasformati in stazioni turistiche, una sorta di b&b locale. Non so cosa pensare, a questa notizia, forse è un’evoluzione naturale delle antiche tradizioni, che così non andranno del tutto perdute. Sono però contenta di averne “assaggiata” un po’, di questa tradizione, quasi come Mary Gough negli anni ’50 del Novecento, e di poterne serbare un ricordo autentico.